L’inizio
del Novecento segnò l’affermazione della potenza imperiale inglese. Il regno di
Edoardo VII, salito al trono nel 1901 alla morte della regina Vittoria, fu accompagnato
dal trionfo economico, industriale e militare del paese. Le condizioni di
lavoro e di vita delle classi lavoratrici erano durissime. La classe dominante,
la trionfante borghesia inglese si riteneva come la protagonista di un mondo
che aveva per sempre trovato i suoi perfetti equilibri. Ma il Vecchio mondo
ottocentesco, con i suoi valori moralisti e populisti, cominciava a morire e
qualcosa di differente e più complesso emergeva: il modernismo.
Il movimento
nacque come movimento artistico e vide la nascita del futurismo, il cubismo e
il vorticismo.
Il
vorticismo proponeva una pittura dai tratti netti e forti, dalle angolazioni
acute, dalle tessere nitide e brillanti, che esaltavano la macchina, l’energia,
il vitalismo.
I pittori
dell’avanguardia rivelavano come la realtà potesse essere colta in modo non realistico, non
«rappresentativo». L’impeto iconoclasta del primo modernismo si sposò però con
il recupero della tradizione: non quella recente, ma quella del grande
patrimonio della cultura europea.
Il modernismo
fu applicato anche alla letteratura grazie alle riflessioni di due filosofi: il
francese Henry Bergson e l’americano William James.
Il concetto
di ciò che Bergson chiamava “duree” ovvero, la durata, associandola ad uno
stato interiore, aveva trasformato il concetto di tempo da una sequenza di
punti separate in un flusso di continuità.
William
James nel suo “Principi di Psicologia”, affermava che la coscienza “non appare
divisa in piccolo pezzi” ma fluisce così come un’onda o un fiume, in un flusso
di coscienza (stream of consciousness).
Ne derivava la scelta di «dissolvere la
realtà, che passando per il prisma della coscienza» veniva cosí frantumata in
aspetti e significati molteplici. Tecnicamente questo, nei narratori,
comportava il ricorso al rivoluzionario stream of consciousness, al flusso di
coscienza, alla traduzione sulla pagina del processo inconsapevole di pensieri,
associazioni e sensazioni che attraversano la mente. Oppure, in Virginia Woolf,
nella rinuncia al punto di vista del narratore per l’adozione di una
molteplicità di punti di vista. L’intento, era quello di «avvicinarsi a una
vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da
molte persone (e in momenti diversi)». (Auerbach)
Furono i modernisti quindi a denunciare l’impossibilità di raccontare una
storia con la linearità e consequenzialità che veniva da un’ordinata visione
del mondo ora che il mondo non era piú conoscibile nella sua totalità. È questo
fu vero sia per i romanzieri, sia per i poeti: «Non so connettere nulla con
nulla», lamenta Eliot in The Waste Land.
Lo
sconcerto, la confusione, la mancanza di solidi punti di riferimento, ma al
tempo stesso la consapevolezza della necessità e della possibilità di
rappresentare dimensioni inesplorate e nuove dimensioni della realtà, si
tradussero nella splendida fioritura letteraria nel primo trentennio del
Novecento.
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